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Il 30 maggio 2019 la Corte Suprema Italiana ha diramato un testo con cui ha sciolto tutti i dubbi in merito alla cannabis light e che, in un certo senso, ha fatto tremare tutti i grow shop, online e non, che sono stati aperti negli ultimi anni.
Secondo questa sentenza, che si rifà alla legge sulla marijuana legale emanata nel 2016, la vendita al pubblico, come pure la cessione, il consumo personale e la commercializzazione di infiorescenze, foglie, resina e olio di cannabis, incluse quelle con un THC inferiore allo 0,6%, è vietata.
La canapa quindi, come confermato anche dalla Cassazione, può essere utilizzata solo per la produzione di fibre tessili e combustili, ma non di hashish, né tanto meno di marijuana, per la vendita o per il consumo personale.
Cannabis light: cosa si può vendere oggi in un grow shop in Italia?
Fatta eccezione per i combustili, i semilavorati e i prodotti destinati all’industria tessile, energetica e biotecnologica, che per ovvie ragioni (motivi di spazio per lo più e anche assenza di magazzini o di appositi serbatoi in cui stoccarle) difficilmente possono essere vendute, i grow shop possono vendere vestiti e accessori creati a partire dalla cannabis, bevande e alimenti che la contengono e cosmetici a base di canapa, come creme e lozioni.
Non possono invece vendere tutti quei prodotti che sono stati dichiarati illegali dall’ultima sentenza della Cassazione, come le infiorescenze, le foglie, la resina e l’olio.
La vendita degli accessori per la coltivazione indoor e outdoor è permessa unicamente se a fini didattici, di ricerca scientifica o di florovivaismo.
Quali saranno le conseguenze di questa sentenza?
Prima che la Cassazione si esprimesse in merito alla legittimità o meno della cannabis light, grazie alla nuova legge 242 del 2016, entrata in vigore il 14 gennaio 2017, i grow shop erano spuntati in tutta la Penisola come funghi.
Lo stesso J-Ax, voce degli Articolo 31 ed ex coach di The Voice of Italy, ne aveva aperto uno a Milano, Mr.Nice, ma il 1 giugno 2019, in seguito alla sentenza emanata dalla Cassazione, ha chiuso i battenti per evitare ritorsioni da parte delle autorità.
La sentenza della Cassazione però, di fatto, ha lasciato più punti interrogativi che chiarezza nella testa dei consumatori: basti pensare che ancora adesso, se una piantagione di canapa presenta un tasso di THC inferiore allo 0,6%, per l’agricoltore non ci sono responsabilità a carico perché è rimasto nei limiti fissati dalla legge, mentre se invece il Corpo dei Forestali rinviene una quantità di THC superiore allo 0,6% scatta il sequestro e la distruzione della piantagione.
Anche tra i cannabis shop c’è un’aria di attesa, perché se è vero che da una parte alcune saracinesche si sono abbassate per non avere guai con la polizia, dall’altra c’è chi continua a vendere i propri prodotti in tutta tranquillità dopo aver sentito il parere di un avvocato esperto in materia, come accaduto ad un negozio situato in Corso Buenos Aires a Milano.
E difatti anche in questo caso la sentenza lascia parecchi punti aperti, perché se è vero che da una parte le autorità possono effettuare, a loro discrezione, più controlli nei cannabis shop, per contro dev’essere il giudice ad avere l’ultima parola e a stabilire se un grow shop rientra o meno nei parametri della legge sulla marijuana legale o se è da perseguire.
Per poter fare ciò il giudice non deve verificare la percentuale di THC contenuta nei prodotti, bensì l’idoneità di quest’ultimi a produrre effetti droganti e che, in caso di esito positivo, in automatico li fanno rientrare nella lista delle sostanze stupefacenti.
A rendere ancora più complessa la faccenda è il fatto che, malgrado anche la cannabis light sia stata dichiarata “illegale”, il legislatore può sempre intervenire sulla materia e dare una regolamentazione differente al settore della canapa sativa e dei suoi derivati, il tutto nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali.