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Flammifer, ovvero “che porta fiamma”, è l’origine etimologica, nella fattispecie deriva dal latino, della parola “fiammifero”.
Abbiamo tutti quanti preso in mano un fiammifero, un piccolo stelo di legno, o di un diverso materiale combustibile, con ad una delle sue estremità una capocchia contenente sostanze che determinano l’innesco della combustione, per mezzo dello sfregamento su una superficie ruvida o comunque ricoperta di sostanze particolari.
L’invenzione del fiammifero ha avuto a suo tempo conseguenze di certo rivoluzionarie: tutti infatti potevano, grazie ai fiammiferi, accendere le lampade ad olio e fuochi senza dover dipendere da altri, portando semplicemente con sé questi piccoli steli. Ma non basta, con la produzione dei fiammiferi nacque un importante segmento del “sistema di fabbrica” ottocentesco italiano, con i relativi problemi, primo fra tutti lo sfruttamento dei lavoratori, donne, uomini e ragazzi, particolarmente grave in un’industria che trattava sostanze altamente pericolose e tossiche come il fosforo bianco e lo stesso zolfo.
La storia del fiammifero nasce a Parigi
Il primo fiammifero nacque a inizio Ottocento a Parigi e fu brevettato da G. Chancel. Chancel inventò l’asticella di legno imbevuta di zolfo, con una capocchia fatta semplicemente da una miscela di clorato di potassio e zucchero. L’invenzione era ancora del tutto rudimentale e anche scomoda, pericolosa oltre che costosa: per l’accensione infatti era necessario immergere la capocchia nell’acido solforico.
Nel 1827 invece John Walker intraprese produzione e vendita di un genere di fiammiferi chiamati all’epoca congreves. I congreves avevano la capocchia fatta di clorato di potassio, solfuro di antimonio e gomma e si infiammavano semplicemente sfregati sulla carta vetrata. Altre applicazioni dello stesso identico principio le possiamo trovare nell’invenzione della lampada di Döbereiner nel 1823, grazie a J. U. Döbereiner, e nel 1832 con il Promethean di S. Jones.
Tre anni dopo, il perfezionamento avvenne grazie a Sauria Kammerer e a Sansone Valobra, inventore ebreo di Fossano, Piemonte. Tale miglioria consisteva nella sostituzione del solfuro di antimonio con una miscela di zolfo e fosforo bianco. Sansone Valobra aprì a Napoli la prima fabbrica di fiammiferi italiana e inventò, successivamente, i fiammiferi con lo stelo di cera, i cosiddetti “cerini”.
I fiammiferi con la capocchia a base fosforica vennero venduti da subito alla corte dei Borboni per ben un ducato a confezione, ed ogni scatola ne conteneva solo venti pezzi. Qualche anno più tardi poi, per l’esattezza nel 1845, un commerciante genovese, Francesco Lavaggi, impiantò a Trofarello, un paese alle porte di Torino, uno stabilimento per la produzione di fiammiferi.
In generale, i fiammiferi in uso a quest’epoca erano fatti con capocchie composte di fosforo bianco, clorato di potassio, colla e altri materiali con la proprietà di sviluppare ossigeno e quindi agevolare la combustione. Tra questi però, il fosforo bianco rendeva le composizioni fortemente velenose, provocando negli operai dell’industria che li producevano intossicazioni pericolose come il fosforismo o la necrosi fosforica. La scoperta del metodo adatto per produrre il fosforo rosso (o amorfo), meno velenoso del fosforo bianco, segna quindi un’importante innovazione nei metodi di fabbricazione dei fiammiferi.
L’uso del nuovo prodotto fu studiato e brevettato nel 1844 da G. E. Pasch, svedese, ma l’applicazione pratica fu fatta l’anno stesso da J. E. Lundström, che iniziò la produzione di questo nuovo tipo di fiammiferi in cui il fosforo amorfo era contenuto in una miscela che veniva spalmata sui fianchi della scatola.
Nonostante la nuova scoperta del fosforo rosso, i fiammiferi a fosforo bianco continuavano a essere fabbricati e usati specialmente nell’Europa meridionale. Per lottare contro il fosforismo e la necrosi fosforica fu quindi poi elaborato un accordo internazionale, che vietava categoricamente l’uso del fosforo bianco per la fabbricazione dei fiammiferi.
La storia dei fiammiferi in Italia
L’Italia, nello specifico, aderì alla “convenzione di Berna” il 6 luglio 1910, ma a causa della guerra e soprattutto per la mancanza di materie prime, tale interdizione fu sancita soltanto il 31 dicembre 1920 con vigore dal 1° gennaio 1921.
Questa invenzione nacque inizialmente come oggetto di lusso, poi però, con l’insorgere di industrie produttrici, divenne oggetto di grande consumo ed entrò a far parte massicciamente della cultura popolare. La sua immensa diffusione lo rese una sorta di media di comunicazione di massa di grande impatto.
Le confezioni erano sempre più riccamente illustrate e veicolavano immagini di re, di politici, militari, attori, monumenti, città, opere d’arte e di costume, vere e proprie testimonianze di cultura tipografica. Furono messi in commercio veri e propri album di immagini che, con il perfezionarsi dell’arte della litografia, si sbizzarrivano in serie come quelle umoristiche, o dei grandi musicisti, degli uomini politici, degli scienziati, degli sportivi.
Tra le più ricercate dai collezionisti, la serie di confezioni ispirata alla storia di Giuseppe Garibaldi e realizzate tra il 1880 e il 1905.
Sono diverse le tipologie di fiammiferi ancora oggi in commercio, mentre sono ormai fuori produzione , e anzi un prezioso oggetto di collezionismo, le bustine di cerini prodotte fino agli anni Cinquanta. Oggetti di particolare eleganza, gli ascendi scala, abbandonati dopo l’avvento dell’illuminazione elettrica, collezionati in bustine “click” che si chiudevano automaticamente al momento dello sfregamento.
Quante tipologie di fiammiferi sono attualmente in commercio?
Le categorie di fiammiferi esistenti sono tre. Sono classificabili in base alla natura dello stelo (di legno o di carta imbevuta di paraffina, come ad esempio i comuni cerini), in base alla natura della capocchia (quelli a capocchia fosforica, che si accendono sfregandoli su qualsiasi superficie ruvida, oppure fiammiferi di sicurezza, quelli che non contengono fosforo e si incendiano solamente se sfregati su una superficie fosforica), o ancora, identificabili come fiammiferi familiari (quelli che noi tutti conosciamo come svedesi, minerva, controvento e impermeabili).
In Italia poi si producono quattro generi di fiammiferi: i cerini, i familiari, i minerva e gli svedesi, di cui gli ultimi tre sono caratterizzati dallo stelo di legno di pioppo.
Ma come si fabbricano i fiammiferi?
I bastoncini vengono inizialmente ricavati dai tronchi degli alberi e, poi arrivati alle dimensioni più piccole, gli steli vengono immersi in una soluzione di bifosfato di ammonio, per evitare proprio che il legno rimanga incandescente dopo la combustione. Si passa successivamente all’essiccazione ad aria calda, e poi alla vagliatrice che elimina i pezzi che non rispettano le dimensioni standard. Gli steli vengono infine messi insieme dai rulli, per poi essere intinti per una estremità nella paraffina (che assicura la continuità della fiamma della capocchia allo stelo). Infine i bastoncini vengono immersi nella pasta che formerà la capocchia che in seguito verrà essiccata.
Questa l’affascinante storia dei fiammiferi, oggetto che ha rivoluzionato la vita di tutti noi. Anche se ora sono stati sostituiti, nella maggior parte dei casi dagli accendini, i fiammiferi rimarranno sempre un oggetto dal sapore particolare, squisitamente vintage.