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La vendita di cannabis light con contenuto di THC inferiore allo 0,6% è lecita. Lo stesso vale per i prodotti derivanti dalla suddetta cannabis. A confermarlo pochi giorni fa è stata la sesta sezione penale della Corte di Cassazione.
Con questa sentenza è stato dichiarato nullo il sequestro, disposto dal Tribunale della città di Macerata, del materiale di un ventottenne marchigiano. Il ragazzo aveva dato inizio al commercio di infiorescenze di cannabis caratterizzate da una percentuale di THC perfettamente in linea con le normative vigenti.
Secondo i giudici, la coltivazione della canapa con un limite di THC entro lo 0,6% non costituisce una deroga alla disciplina penale vigente in materia. La decisione in questione ha creato per un po’ di tempo dei momenti di vero panico tra i titolari degli esercizi che si occupano della commercializzazione di cannabis light e che per qualche tempo hanno visto vacillare la legalità della propria attività.
Quando è possibile sequestrare i raccolti di cannabis light
Secondo la sentenza della suprema Corte di Cassazione, la legge del 2016 che consente al coltivazione di canapa con quantità di THC entro lo 0,6% deve essere presa in considerazione senza necessità di autorizzazione. Fondamentale è ricordare gli obblighi del coltivatore, che comprendono la conservazione delle fatture di acquisto e delle etichette delle sementi.
In sede di controllo, se la percentuale di THC risulta superiore allo 0,6%, è autorizzato il sequestro del materiale dell’agricoltore, così come la sua distruzione.
Produzione e commercializzazione: nessuna differenza per i limiti di THC
Un altro punto molto importante da toccare in merito alle normative sulla cannabis light riguarda il fatto che, per quanto riguarda il limite di THC, non esiste alcuna differenza tra la produzione e la commercializzazione.
La norma non parla in maniera specifica di commercializzazione, ma per la Cassazione è ovvio che i limiti debbano essere applicata anche a questa circostanza. La questione da dirimere per alcuni ha riguardato un interrogativo ben preciso: la commercializzazione può riguardare anche la vendita al dettaglio di infiorescenze caratterizzate da un limite legale di THC e da CBD e la conseguente libertà dell’acquirente in merito all’utilizzo?
Su questa domanda la Cassazione ha subito chiarito tutto, chiamando in causa la liceità della coltivazione della cannabis prevista dalla legge del 2016. Ha affermato ufficialmente che tale liceità deriverebbe da quella dei prodotti contenenti una percentuale di THC inferiore allo 0,6, non considerabili come sostanze stupefacenti.
In poche parole: i titolari dei grow shop possono tirare un sospiro di sollievo. La paura si era diffusa dopo che il ministro della famiglia e della disabilità Lorenzo Fontana aveva rilasciato un’intervista affermando l’intenzione di verificare la conformità alla normativa vigente dei numerosi grow shop presenti in Italia. Secondo il Ministro, la legge del 2016 ha spinto alla commercializzazione di cannabis light utilizzata per fini che secondo il Consiglio Superiore di Sanità possono essere anche pericolosi.
Queste dichiarazioni sono state viste come una bomba e come un pericolo per gli esercizi che vendono cannabis light. La sentenza della Cassazione ha fatto tirare un sospiro di sollievo a numerosi imprenditori che, negli ultimi anni, si sono lanciati nel business della canapa legale.